Con emergenza Coronavirus non automatica la risoluzione del contratto d’affitto

Il prolungato momento di difficoltà per le attività commerciali, a partire dalla quarantena imposta dall’emergenza Coronavirus, continua a dispiegare i suoi effetti fortemente negativi per la scarsa ripresa dei consumi con la conseguenza, spesso, dell’impossibilità di pagare i canoni di affitto.

In molti casi, tentando di conciliare le sopravvenute difficoltà a pagare con il dovere di corrispondere l’affitto, è stato possibile accordarsi per una sospensione del pagamento del canone, salvo poi rientrare delle somme non versate in futuro ed in maniera dilazionata; o ratificando tra le parti una momentanea e congrua riduzione del canone.

Tuttavia, in mancanza di questi accordi volontari tra locatore e conduttore, che succede con il contratto d’affitto ancora in corso se, invece, l’attività proprio non riparte?

La via riconosciuta dal diritto è la “risoluzione anticipata del contratto”, in questo caso per “eccessiva onerosità sopravvenuta” rimedio giuridico utile in situazioni di emergenza come quella creata dalla pandemia ovvero quando, a causa di eventi straordinari ed imprevedibili, si produce una grave alterazione dell’equilibrio tra il valore della prestazione e quello della controprestazione, equilibrio che al momento della conclusione del contratto sussisteva.

Ma è davvero sempre un diritto?

Si potrebbe pensare che il Coronavirus rappresenti quella “grave alterazione dell’equilibrio tra il valore della prestazione e quello della controprestazione…” utile a giustificare la suddetta risoluzione. 

Approfondendo invece quanto previsto dal codice la realtà è diversa, infatti all’art.1467 del codice civile in tema di “Contratto con prestazioni corrispettive” leggiamo che “nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458…”.

Fin qui il problema sembrerebbe di facile soluzione, ma il citato articolo termina con “la risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.

Che significa?

Rispondiamo con una recente ordinanza del Tribunale di Rimini, 18 giugno 2020, in base alla quale – in sintesi – si è stabilito che la temporaneità delle misure che hanno impedito ad una specifica commerciante, richiedente la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, non ha condotto alla chiusura dell’attività grazie anche agli interventi di sostegno messi in campo dal Governo. Per cui la risoluzione è stata dichiarata inammissibile.

Ciò in base ad un assunto che leggiamo nell’ordinanza, secondo cui “le drastiche misure adottate hanno avuto vigenza temporanea e, almeno attualmente, non essendovi più restrizioni agli spostamenti all’interno del territorio nazionale, non appare verosimile che una località turistica come Rimini resti senza turisti durante la stagione estiva”. 

Pertanto il carattere straordinario ma temporaneo dell’emergenza non è incompatibile con la conservazione del contratto, soprattutto se nel frattempo le parti hanno anche stabilito quelle sospensioni o riduzione del pagamento del canone di cui sopra.

Leggi anche: Affitti commerciali e crisi post Covid: se lo sconto sul canone non è concordato è il Tribunale ad imporlo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *